SEBBEN CHE SONO VELATE (ARTICOLO)
Sebben che sono velate
Tante donne al Salone del Libro di Algeri: tra i visitatori, gli autori e anche tra gli editori
PAOLA CARIDI
ALGERI
8/11/2009, LASTAMPA.it
“Hai visto? Son venuti tutti». La sorpresa si legge chiara sul viso degli organizzatori del Salone del Libro di Algeri, quando è il momento dei bilanci. C’erano proprio tutti, nella kermesse che per dieci giorni, a cavallo tra ottobre e novembre, ha reso ancor più invivibile il traffico della «città bianca». Tutto il catalogo vivente degli algerini. E delle algerine. Ognuno, ognuna con la propria divisa indosso. Decine di migliaia, ogni giorno, dal 27 ottobre al 6 novembre, sparsi per il complesso olimpico Mohamed Boudiaf. Non per una partita di calcio, anche se Algeri, l’Algeri della corniche, del porto e della Casbah, ha già da giorni la febbre alta per un confronto, quello con la nazionale egiziana previsto per il 15 novembre al Cairo, che mette in palio la partecipazione alla Coppa del Mondo.
Qualche chilometro più in là, però, di bandiere, t-shirt e gadget calcistici non c’era l’ombra. E anche di una tensione pre-gara che ha poco di sportivo e molto di sociale. Nel complesso olimpico c’era solo un enorme tendone, in un altrettanto gigantesco parcheggio, stipato di stand e libri. E di algerini delle più diverse provenienze. I laici, gli intellettuali fieri del loro francese postcoloniale che è (ancora) lingua comune. Gli islamisti, attaccati a un recupero dell’identità tradizionale e precoloniale che è tanto evidente da diventare una vera e propria etichetta: barba, zuccotto, tunica. Famiglie intere, bambini composti, persi appresso a papà e mamma tra le centinaia di stand, i corridoi stipati. E soprattutto le donne, tante, in un campionario talmente variegato da far capire che l’Algeria, dentro e fuori una fiera del libro, si declina ancora in varie lingue. Non solo l’arabo nazionale, il francese, il tamazigh.
Che vi fosse attenzione alla dimensione femminile, era scontato. Alla testa del ministero della Cultura, ormai da anni, c’è Khalida Toumi, più nota in Europa come Khalida Messaoudi, simbolo del femminismo algerino, una vita segnata dalla battaglia sul codice di famiglia e contro l’islamismo radicale degli anni Novanta. E ospite d’onore, premiata in pompa magna, è stata un’altra donna-icona, Ahlam Mosteghanemi, una delle poche autrici arabe di bestseller, tradotta in buona parte del mondo. Compresa l’Italia, con il suo romanzo più conosciuto, Memoria del corpo (ed. Jouvence).
A fare la differenza, però, è stato altro. Non il ministero della Cultura, né la scelta di Ahlam Mosteghanemi. Ma il pubblico di una fiera che aveva un programma figlio della cultura laica. E che invece era composto in gran parte dei più diversi veli che descrivono la realtà araba. Oltre quella algerina. Dal niqab integrale al foularino vezzoso, dal velo della maggioranza silenziosa ai capelli sciolti, lo stuolo di lettrici era unito da quelle buste stracolme di libri comprati, quest’anno, a caro prezzo. A dimostrazione che i veli, nel mondo arabo, non sono tutti uguali. Come le donne. E che anche l’antinomia femminismo classico/tradizionalismo non riesce più a descrivere quello che succede, tra le pieghe dell’universo femminile.
A sentirsi a disagio, nelle vecchie categorie, ci si sono trovate anche scrittrici come la marocchina Khenata Belloula e anche la più giovane algerina Amel Bachiri, animatrici di una delle tavole rotonde a latere del Salone, assieme a una delle romanziere più interessanti del momento, l’irachena Inaam Kachachi, finalista all’ultimo Arabic Booker Prize con un libro, La nipote americana, che parla non a caso di identità multiple nell’Iraq dopo Saddam. Ad accusarle di fare ancora letteratura rivendicativa, forse non a caso, erano uomini giovanissimi. E la reazione, dura, è arrivata immediata. Nessuna letteratura rivendicativa, ormai da molto tempo. L’accusa è anacronistica: le scrittrici narrano il mondo, tutto il mondo, ovviamente con lo sguardo femminile.
Tutto è molto più complesso, insomma. Lo stuolo delle scrittrici arabe è ormai solido, consistente. Così come una presenza femminile dentro il mondo dell’editoria. Lo è dai tempi della prestigiosa Saki Books fondata un quarto di secolo fa dalla compianta Mai Ghossoub. Mentre oggi, nelle fiere, nei festival, tra gli stand, spicca per esempio la nuova letteratura per l’infanzia pubblicata e decisa da imprenditrici, in prima fila le libanesi, al solito più innovative. Poi le egiziane, musulmane e copte assieme, una accanto all’altra. A far letteratura in lingua araba: un dettaglio linguistico per nulla scontato, in un momento nel quale la lingua araba sta vivendo la pressione di semplificazioni e influenze indotte da tv, Internet, globalizzazione.
Tante donne al Salone del Libro di Algeri: tra i visitatori, gli autori e anche tra gli editori
PAOLA CARIDI
ALGERI
8/11/2009, LASTAMPA.it
“Hai visto? Son venuti tutti». La sorpresa si legge chiara sul viso degli organizzatori del Salone del Libro di Algeri, quando è il momento dei bilanci. C’erano proprio tutti, nella kermesse che per dieci giorni, a cavallo tra ottobre e novembre, ha reso ancor più invivibile il traffico della «città bianca». Tutto il catalogo vivente degli algerini. E delle algerine. Ognuno, ognuna con la propria divisa indosso. Decine di migliaia, ogni giorno, dal 27 ottobre al 6 novembre, sparsi per il complesso olimpico Mohamed Boudiaf. Non per una partita di calcio, anche se Algeri, l’Algeri della corniche, del porto e della Casbah, ha già da giorni la febbre alta per un confronto, quello con la nazionale egiziana previsto per il 15 novembre al Cairo, che mette in palio la partecipazione alla Coppa del Mondo.
Qualche chilometro più in là, però, di bandiere, t-shirt e gadget calcistici non c’era l’ombra. E anche di una tensione pre-gara che ha poco di sportivo e molto di sociale. Nel complesso olimpico c’era solo un enorme tendone, in un altrettanto gigantesco parcheggio, stipato di stand e libri. E di algerini delle più diverse provenienze. I laici, gli intellettuali fieri del loro francese postcoloniale che è (ancora) lingua comune. Gli islamisti, attaccati a un recupero dell’identità tradizionale e precoloniale che è tanto evidente da diventare una vera e propria etichetta: barba, zuccotto, tunica. Famiglie intere, bambini composti, persi appresso a papà e mamma tra le centinaia di stand, i corridoi stipati. E soprattutto le donne, tante, in un campionario talmente variegato da far capire che l’Algeria, dentro e fuori una fiera del libro, si declina ancora in varie lingue. Non solo l’arabo nazionale, il francese, il tamazigh.
Che vi fosse attenzione alla dimensione femminile, era scontato. Alla testa del ministero della Cultura, ormai da anni, c’è Khalida Toumi, più nota in Europa come Khalida Messaoudi, simbolo del femminismo algerino, una vita segnata dalla battaglia sul codice di famiglia e contro l’islamismo radicale degli anni Novanta. E ospite d’onore, premiata in pompa magna, è stata un’altra donna-icona, Ahlam Mosteghanemi, una delle poche autrici arabe di bestseller, tradotta in buona parte del mondo. Compresa l’Italia, con il suo romanzo più conosciuto, Memoria del corpo (ed. Jouvence).
A fare la differenza, però, è stato altro. Non il ministero della Cultura, né la scelta di Ahlam Mosteghanemi. Ma il pubblico di una fiera che aveva un programma figlio della cultura laica. E che invece era composto in gran parte dei più diversi veli che descrivono la realtà araba. Oltre quella algerina. Dal niqab integrale al foularino vezzoso, dal velo della maggioranza silenziosa ai capelli sciolti, lo stuolo di lettrici era unito da quelle buste stracolme di libri comprati, quest’anno, a caro prezzo. A dimostrazione che i veli, nel mondo arabo, non sono tutti uguali. Come le donne. E che anche l’antinomia femminismo classico/tradizionalismo non riesce più a descrivere quello che succede, tra le pieghe dell’universo femminile.
A sentirsi a disagio, nelle vecchie categorie, ci si sono trovate anche scrittrici come la marocchina Khenata Belloula e anche la più giovane algerina Amel Bachiri, animatrici di una delle tavole rotonde a latere del Salone, assieme a una delle romanziere più interessanti del momento, l’irachena Inaam Kachachi, finalista all’ultimo Arabic Booker Prize con un libro, La nipote americana, che parla non a caso di identità multiple nell’Iraq dopo Saddam. Ad accusarle di fare ancora letteratura rivendicativa, forse non a caso, erano uomini giovanissimi. E la reazione, dura, è arrivata immediata. Nessuna letteratura rivendicativa, ormai da molto tempo. L’accusa è anacronistica: le scrittrici narrano il mondo, tutto il mondo, ovviamente con lo sguardo femminile.
Tutto è molto più complesso, insomma. Lo stuolo delle scrittrici arabe è ormai solido, consistente. Così come una presenza femminile dentro il mondo dell’editoria. Lo è dai tempi della prestigiosa Saki Books fondata un quarto di secolo fa dalla compianta Mai Ghossoub. Mentre oggi, nelle fiere, nei festival, tra gli stand, spicca per esempio la nuova letteratura per l’infanzia pubblicata e decisa da imprenditrici, in prima fila le libanesi, al solito più innovative. Poi le egiziane, musulmane e copte assieme, una accanto all’altra. A far letteratura in lingua araba: un dettaglio linguistico per nulla scontato, in un momento nel quale la lingua araba sta vivendo la pressione di semplificazioni e influenze indotte da tv, Internet, globalizzazione.
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